Km 0
Innanzitutto la definizione. Cosa significa km 0?
Proporre il più possibile i prodotti locali, quelli tipici del territorio nel quale è inserita l’attività ristorativa, credo.
Ora la prima e importante domanda. Perché?
Seppure sommariamente si potrebbe dire perché:
-il prodotto locale è facilmente riconoscibile,
-il suo utilizzo è rispettoso della tradizione gastronomica e quindi culturale del luogo
-perché è più fresco, viaggia meno, inquina meno
-perché si “valorizza” il territorio
-incrementa il lavoro, il benessere e la ricchezza economica, almeno la micro economia locale
-perché non si spopolano le campagne, le colline, le montagne e in qualche modo si difende il territorio, si è più “green”
e molte altre ragioni ancora.
Seconda domanda logica è capire qual è il limite geografico del km 0.
Pochi km, un centinaio al massimo, oppure altro?
Sorge il dubbio fondato che in molti luoghi, intere regioni del mondo si dovrebbe rinunciare, o ridurre al minimo il piacere, la fortuna, di consumare centinaia di prodotti ottimi o eccellenti, poiché per loro natura non possono essere locali e neppure prossimi o almeno vicini, basti pensare al caffè o allo spumante o allo champagne, persino al pesce e ai prodotti ittici in genere. Una cosa impensabile e persino ridicola, ingiustificata, antistorica e antieconomica.
Dal punto di vista teorico si tratta di una sorta di idea di economia, almeno gastronomica, autarchica, anacronistica e pericolosa.
Presa alla lettera, questa del km 0 è una stupidaggine.
Considerata con buon senso come una possibilità è totalmente condivisibile.
Ma il buon senso rappresenta una linea guida dei comportamenti umani.
Solo lenticchie di Castelluccio, triglie di scoglio, olio extravergine del Garda, ecc. ecc.
Fa ridere o arrabbiare, secondo i punti di vista. E’ come dire solo cachemere, solo sigari toscani, solo Franciacorta millesimato.
Un milanese dovrebbe rinunciare ai prodotti siciliani, quali le arance, il marzapane, il Marsala; non dovrebbe mangiare pesce di mare, con gravi danni per la salute; non dovrebbe bere caffè. E così via, perché mi sembra che un piccolo esempio sia sufficiente.
L’Italia sarebbe in rovina, non potendo esportare tutti i suoi manufatti, nel nostro caso. Ad esempio la pasta, l’olio extravergine, il parmigiano o il pecorino. Assurdo.
La pasta, il nostro vanto, è prodotta per il 50% con grano acquistato all’estero e poi trasformato.
Se si tratta di piccole produzione di qualità, di “nicchia”, che soddisfano il mercato locale e gli appassionati e benestanti che si recano, quali turisti o visitatori, in determinate località, allora tutto diventa chiaro e comprensibile.
Ma sembra una possibilità che possono cogliere poche migliaia di persone ricche, un pubblico limitato e ben abbiente, che incontra una ristorazione di qualità e livello alto.
Insomma la borghesia buona o anche meno buona italiana si è inventata un altro slogan.
Il km 0.
Uno slogan valido e condivisibile, ma ambiguo.
Perseguito da pochi nobili amici piemontesi e poi, una volta diventato business, trasformato in una storia di puro business, il quale, per sua natura, difficilmente può considerarsi etico.
Rimane indubbio che il prodotto alimentare di buona qualità deve essere tutelato in ogni modo e difeso dalla produzione industriale multinazionali che, in nome del profitto e fingendo di voler “nutrire” il mondo e salvarlo dalla fame, promuove e distribuisce ogni sorta di vera e propria porcheria, spacciandola per cibo buono e sano.
Consapevolezza, conoscenza, informazione devono essere i filtri attraverso i quali scegliamo ogni giorno gli alimenti da proporre ai nostri ospiti, clienti, amici, famigliari, figli.
Km 0 o km 1000, che dir si voglia!
- June 13, 2016
- No Comments
- 0
- economia, km zero, prodotti