Napoli a maggio
Napoli, il San Carlo e i prodotti della buona tavola vanno in scena sotto le luci del sole di primavera
Grandi città moderne, complesse, Napoli lo è come poche, penso a Roma, come termine di paragone più vicino. Di fronte alla complessità, cliché e luoghi comuni, anche veri ma non sempre, sono una pratica scorciatoia per illudersi di aver capito. Io invece Napoli non l’ho ancora capita, e va bene così, posso continuare a visitarla, provando anche sentimenti contrastanti, ma sempre con un buon motivo per tornarci. L’occasione stavolta è triplice: festeggiare un compleanno, ascoltare al San Carlo una voce di tenore che da tempo non sento e fare qualche sosta gratificante per il palato.
Il tempo di posare le valigie e sono già con le gambe sotto il tavolo da “Palazzo Petrucci”. Una stella Michelin conquistata ad un anno dall’apertura, nato dalla congiunzione astrale di un commercialista appassionato di enogastronomia e uno chef, penso a creatività e contabilità, un binomio garanzia di solidità. Da quattro mesi cambio di sede, da quella storica nelle ex stalle del quattrocentesco Palazzo Petrucci, alla spiaggia di Posillipo di Villa Donn’Anna, e il mare forse di storia ne ha di più da raccontare. Tavolo con vista mozzafiato, tra noi e le onde solo una stretta spiaggia, siamo a Maggio, ma è già popolata, potere della primavera estiva al sud. In sala cucina a vista; ormai i fuochi, come i cuochi, sono passati dal retroscena alla ribalta. La stella si rivelerà meritata. Il piatto che spicca, inaspettatamente, una zuppa, di patate, sì, ma arrostite con la buccia e quindi con un sapore tutt’altro che piatto, con aggiunta di cipolle, calamaro scottato e sopra il mujjol, un caviale dal sentore affumicato, una vera sferzata al palato. Come dessert la stratificazione di pastiera: di fatto una pastiera a strati in un bicchiere da cocktail, frolla sbriciolata sotto, cremoso con grano saraceno e sentore di arancia, bastoncini friabilissimi di frolla, sopra. Con i dessert classici sarei contrario alle rivisitazioni, scomposizioni, stratificazioni ecc, credo che saper eseguire un classico in maniera ineccepibile, magari con un elemento di personalizzazione per dare la possibilità allo chef di metterci del suo, sia più che sufficiente. In questo caso però mi piace assai sia l’idea che la realizzazione, ma forse il vero motivo è che non amo molto l’originale, la pastiera in sè.
Effettuato il check-in in hotel, al netto di cortesia del personale, dimensioni della camera, condizioni del bagno, il valore aggiunto, il vero servizio che da solo vale il prezzo della camera è uno: il mare! Coi suoi riflessi a seconda del momento della giornata e della luce, con lo sciabordio delle onde, sotto il balcone, i gabbiani a fare da colonna sonora mentre il borgo dei pescatori e Castel dell’Ovo fanno da cornice a questo quadro liquido. Me lo godo nella quiete della sera, quiete relativa, perché Via Partenope pedonalizzata, nel week end, diventa un pescoso bacino di umanità varia. Me lo godo ancora di più alle prime luci dell’alba, quando vedo passare solo qualche patito del jogging domenicale, due pescatori che mollano gli ormeggi e una caritatevole gattara col suo seguito di felini famelici.
L’unico motivo per il quale si potrebbe pensare, un giorno, di non vivere più a Milano, è la possibilità a letto di girare la testa sul cuscino e trovarsi davanti il mare.
Nei due giorni seguenti è un perdersi per le vie del centro, dall’arteria di Via Toledo a Spaccanapoli e poi Via dei Tribunali. L’insieme è un brulicare di odori e colori, frutta e verdura sembrano foto editate tanto l’aspetto è smagliante. Tra “L’angolo del baccalà” e la trattoria di sole trippe, cedo al tarallo, in una panetteria che profuma di buono: l’aspetto dell’impasto è fitto fitto di mandorle, moderato di pepe, generosa la fragranza.Il tour continua serrato, per strada si alternano pizzerie e chiese, sacro e profano, ma in fondo anche la pizza ha una sua “sacralità”.
In mezzo a questo week end la recita pomeridiana domenicale al Teatro San Carlo. É la terza volta che entro in vita mia in questa sala, ogni volta lo splendore luccicante degli ori e degli affreschi mi travolge, la sua storia anche; per un rossiniano sapere che qui Rossini è stato direttore musicale ha un peso emotivo non indifferente. Durante tre ore tradisco la Scala, senza rimorsi. L’Opera che va in scena è Fedora di Umberto Giordano, fine ‘800, scene e costumi vengono dalla Scala originariamente, un allestimento storico ( dai, almeno stavolta 1-0 per la Scala, il campanilismo trionfa). Donna forte, Fedora, decisa a vendicare il fidanzato ucciso, innescherà una situazione che avrà esiti incontrollabili; ne faranno le spese degli innocenti e anche il protagonista maschile che si innamora di lei, a un certo punto anche ricambiato, pur essendo l’assassino del fidanzato di Fedora. La situazione ormai sfuggita di mano in maniera irrecuperabile porterà all’esito fatale tragico: la protagonista si toglie la vita col veleno. Ce n’è abbastanza per tenere desta l’attenzione anche per chi non fosse appassionato d’Opera. Musica, drammaturgia e spettacolo scorrono, piacevoli, tesi nel secondo atto, emozionanti. La protagonista, Fiorenza Cedolins, affronta il ruolo egregiamente, il tenore verso il quale avevo alte aspettative, non le delude affatto, bravo e ancora bravo Giuseppe Filianoti in una parte non semplice.
Prima del teatro meglio non esagerare a tavola, e allora pesce, scelgo “Pescheria Mattiucci”; abbastanza di successo a Napoli da avere aperto una filiale a Milano e una a Londra. Il ragazzo che ci serve è gentile, simpatico, si vede che ama il suo lavoro, con una bella loquacità che passa indifferentemente dall’italiano al dialetto ad un fluente inglese con altri avventori canadesi. Il tortino di alici ripieno di olive e peperoni è decisamente saporito, il rametto di timo fresco appena colto messo sopra, ha un profumo che è un sapore, i pomodorini del Piennolo che accompagnano sapidi quanto il pesce, il Vesuvio, oltre a fare da sfondo in cartolina, produce anche questa meraviglioso ortaggio. Prima ancora, il boccone di pane tostato e caldo, burro e alici di Cetara, sarà molto più semplice, apparentemente povero, in realtà ricco di sapore.
Ultimo giorno, una visita al Duomo non può mancare, poi, coniugando amore per l’arte e per la musica, anche a Santa Maria in Monte Santo, che ospita la sepoltura di Scarlatti. Se il tempo stringe e si vuole avere, letteralmente, una vista d’insieme della città, la visita dall’alto di Castel Sant’Elmo si impone dall’alto del Vomero, raggiungibile grazie alla funicolare. Nessun ambiente interno visitabile ma mura percorribili passeggiando consentono una vista senza pari, a 360 gradi: dall’imbarco di Beverello che ispira luoghi come Ischia e Capri, alla Galleria Umberto, al San Carlo, al monastero di Santa Chiara, ruotando lo sguardo fino a Mergellina e oltre, si arriva quasi al Golfo di Pozzuoli.
Il pranzo prima di partire sarà alla “Taverna a Santa Chiara”, inserita nella Guida Osterie d’Italia Slow Food, attenzione a prodotti regionali, anche acquistabili. Emblematico il pacchero al forno ripieno di crema di ricotta di Fuscella, campana DOC, di caciocavallo di Benevento, non da meno in quanto a origine locale, e ragù di carne. A condire una salsa di pomodoro, equilibrata senza nessun eccesso di dolcezza a un estremo, acidità all’altro o ingannevole untuosità. Altrettanto equilibrato il conto.
Stazione Garibaldi, binario 17, il frecciarossa per Milano è già pronto; a bordo propongono il menu Cracco, mi spiace Signor Carlo, stavolta passo, la cena saranno i taralli acquistati poche ore prima, per un distacco soft da Napoli e le sue atmosfere.
Gli indirizzi:
Pescheria Mattiucci
- May 10, 2016
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- Napoli, opera lirica, pastiera, San Carlo, Vomero