Stellati
Stellati, identificati, golosi e dintorni
Frequento, per passione e per fortuna, molti ristoranti stellati e di chef spesso patron, identificati.
Golosamente e di assimilabili, giovani, si fa per dire, italiani o europeizzati.
Mi sembra che la tendenza sia verso un certo cambiamento e un ritorno alla originalità di ognuno.
Ma certo negli ultimi dieci anni mi sono sembrati tutti uguali.
Esclusi i loro piatti “cavalli di battaglia”, per il resto una sola minestra, spesso riscaldata.
Bravi sono bravi, molto bravi. Lo scrivo sinceramente; molti di loro li conosco e li stimo.
Il sistema li ha messi in fila:
Stesse divise del personale, stesse tovaglie, bicchieri, piatti e stoviglie.
Stessi colori pastello delle pareti, arredi.
Sembra che una sola piattaforma fornisca tutto a tutti.
Il nostro pane fatto in casa.
Sempre la sola e unica acqua, che se non ce l’hai sei fuori dal giro, quella di una nota multinazionale che poco ha a che fare con il cibo buono e sano e molto con la comunicazione nella ristorazione “alta”.
Servizio di sala un pochino ingessato e quasi mai all’altezza.
La stessa cantina dei vini uguale per tutti.
Caffè, tè, libri in ogni angolo.
E francamente anche il menu, in stile molto “francese” come dico io.
Che vuol dire standard, perché nel loro caso 10 sono le eccellenze e tutti te le propongono.
E noi a fare la stessa cosa.
Uno comincia con il sifone e via tutti di sifone, poi il sottovuoto e la bassa temperatura (va bene questa carne è tenerissima, ma non necessariamente più buona) e cosi via.
Aria e spume; e aria e spume siano.
Crudo di pesce? E tutti a crudo di pesce. Capesante? E vai di capesante.
Simil giapponese italianizzato. Mah.
E i piatti sono costruiti sempre allo stesso modo: il pezzo principale, una cremina colorata stesa a pennellata, una polvere di qualche ingrediente finto originale comprata pronta in Spagna, qualche fogliolina di erbetta magica aromatica, insalatina sfiziosa e germogli. Et voilà.
Una gara a chi è più bello, sotto il vestito poco; che sembra la gara dei burger a chi ce l’ha più grosso.
Modaiolo, finto.
Tutto buonissimo, eccellente, va tutto bene.
Ma provare a fare la differenza non sarebbe male; sorrisi, leggerezza, umanità, veri piatti del posto, anche imperfetti, ma veri.
Meno food e più cibo; meno umami e più umani.
E alla fine lo chef patron che esce in sala: io lo ammiro perché conosco la fatica, il caldo, lo stress, i problemi, i sacrifici che questa professione ti chiede.
Ma non dire sempre quelle quattro frasi fatte, finte, inutili:
la mia filosofia di cucina
la mia visione creativa, la mia arte
valorizzare il territorio
tradizione e innovazione
il ricordo, la mamma, l’Italia, il nostro Paese.
E altro ancora di peggio.
Non siamo Gualtiero Marchesi, il PRIMO e neppure cuoco, che queste cose le diceva 40 anni fa; non siamo Matteo Renzi in campagna elettorale.
Lavoriamo per essere contenti quando facciamo bene il nostro LAVORO e i nostri CLIENTI, che PAGANO (non amici o ospiti, ma certo anche amici e ospiti) SONO CONTENTI.
E ci arrabbiamo, facciamo fatica, trascuriamo la famiglia come i molti che lavorano con passione, qualunque sia il loro lavoro. E siamo permalosi e non ci piacciono le critiche ma poi ci pensiamo.
Il DENARO ci serve per pagare regolarmente il personale, i fornitori, il leasing, le bollette.
A meno che lo chef patron non sia il milionario di turno che decide di spendere il patrimonio di famiglia per la gloria (ci sono anche questi in giro): ma del vantaggio di essere ricchi ne scriverò un’altra volta.
- October 23, 2015
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